Sarebbe dovuto essere un giovedì come tutti gli altri, con la prospettiva di un fine settimana che per chi lavora nell’informatica sarebbe potuto essere tranquillo.
Invece, si è trasformato in un’ondata di panico globale che ha bloccato nei fatti Google e buona parte della rete per qualche ora. La situazione si è risolta in una manciata di ore, ma in quelle ore nessuno dei servizi principali offerti dalla società della grande G online era utilizzabile.
Non c’era Google Discover, non c’era Google Lens.
In pratica, non c’era nulla e non c’erano neanche molti siti web.
Questo ha portato a un immediato calo delle visite e degli utenti attivi. Una situazione che, andando a guardare alla storia di Google, si è già verificata nel passato con un totale che sale ora a 8 incidenti tra quelli più importanti che sono stati registrati.
A distanza di diverso tempo, dato che il blackout Google si è verificato a giugno, abbiamo deciso di fare una serie di riflessioni riguardo proprio quello che possiamo imparare da una situazione così problematica, anche se risolta in tempi piuttosto celeri.
Doveva essere il collaudo di un nuovo sistema messo in essere da Google alla fine del mese di maggio, ma si è trasformato in diverse ore di panico. Niente è sembrato funzionare e la rete si è chiaramente trasformata in un’enorme scolaresca senza insegnante.
ùIl blackout di Google ha ridotto il traffico in modo decisamente importante per tante realtà. Realtà che facevano (e probabilmente fanno ancora) affidamento per esempio su servizi come Google Lens, il feed di Discover e la ricerca vocale. La risposta, se si va a guardare al log su Google Search Status Dashboard, è stata abbastanza tempestiva: nel giro di 10 ore il problema è stato dato come risolto e la questione quindi è tornata alla normalità.
Ma non è stato un problema che ha coinvolto solo Google (tra l’altro al di là dei servizi prettamente rivolti alla ricerca, dato che si sono segnalati problemi addirittura con Calendar e Google Drive). Tutta la rete di Google Cloud è infatti andata in totale blackout, e ciò ha comportato disservizi a servizi che non avremmo mai immaginato si appoggiassero all’infrastruttura Cloud della grande G: tra questi Cloudflare e addirittura Snapchat, Spotify, Discord, Character.ai.
In pratica, abbiamo perso per una manciata di ore più della metà di tutta la rete. Ma come dicevamo all’inizio, la situazione poi si è risolta. Non abbiamo intenzione di entrare nel dettaglio della sequenza di eventi e di errori che ha portato al problema. Quello che ci interessa è riflettere su cosa significhi affidarsi in maniera così massiccia a una singola società.
Data la vastità del problema che si è realizzato nel momento in cui i server di Google Cloud sono andati giù, la prima riflessione che si potrebbe fare è chiaramente quella sul perché tutti si appoggiano a un’unica infrastruttura che è quella offerta da Google Cloud per tenere in piedi il proprio business, qualunque esso sia.
C’è poi la questione che riguarda tutti quei siti che hanno perso traffico proprio perché impossibilitati a essere raggiunti a causa degli incidenti ai servizi che Google offre per la ricerca dei contenuti online. E anche in questo caso la domanda è: perché affidarci tutti a una stessa fonte?
Eppure la logica vorrebbe che, esattamente come si diversificano i propri canali di marketing, si tenessero a disposizione più canali di comunicazione con gli utenti, soprattutto se dalle interazioni con gli utenti deriva la sopravvivenza del proprio sito web e della propria realtà.
Come abbiamo provato qualche volta a immaginare, sarebbe forse il caso di cercare di organizzare dei piani di backup e soprattutto di non concentrarci su un unico servizio anche se si può essere estremamente tentati dall’usare quello che usano tutti.
Guardando per esempio al blackout di Google Cloud che ha spento tantissime realtà importanti, l’idea potrebbe essere quella di passare a un’alternativa rispetto a Google Cloud o comunque di avere i propri servizi presenti con un’infrastruttura che è in grado di rispondere se una parte non è disponibile.
Per quanto riguarda invece, andando più verso il piccolo che non il macroscopico, i siti web veri e propri che si sono trovati senza quello che consideravano l’unico ponte di contatto con gli utenti, è chiaro che questo blackout di Google ci insegna che non è possibile fare affidamento solo e soltanto su Google Search e sui servizi che Google offre agli inserzionisti e ai gestori di siti web.
Esistono diversi motori di ricerca che infatti non si appoggiano al sistema di indicizzazione di Google e che sono molto spesso anzi utilizzati dagli utenti che decidono di cambiare il proprio browser e di abbandonare quello di Google in blocco.
Organizzare una propria campagna in maniera tale da poter essere indicizzati anche in questi motori di ricerca alternativi a quello di Google può nei fatti garantirti comunque linee di comunicazione aperte con gli utenti.
È chiaro che chi si trova e chi ti trova su Google fa parte di un gruppo che rimane a tutt’ora quello più grande in assoluto, ma se il resto del mondo si ferma, e dato che siamo arrivati all’ottavo incidente e niente ci vieta di immaginare che nel futuro possano esserci altri blackout del genere, anche un solo visitatore che arrivi a te da un altro motore di ricerca attraverso un altro browser è un visitatore che tu hai e la concorrenza no.
Trovare risposte alternative che non cominciano con G per l’organizzazione dei propri servizi e per la propria presenza online non è quindi solo un modo per esplorare mondi alternativi, che tra l’altro gli utenti dimostrano di voler esplorare a loro volta, ma di certo anche un modo per essere un po’ più al riparo dalle fluttuazioni che possono verificarsi per problemi tecnici o, speriamo di non veder mai una cosa del genere, per guerre informatiche.
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