Google ha sempre cercato di mantenersi a una giusta distanza dagli esperti di SEO e da tutti quelli che cercano di fare un buon lavoro per poter poi apparire nella SERP.
I documenti ufficiali diffusi dalla società che parlano dei fattori di ranking che vengono utilizzati sono sempre piuttosto ampi, qualcuno li definisce anche un po’ fumosi. Ma del resto se venisse chiarito per filo e per segno tutto ciò che succede dietro le quinte ci sarebbe una gara a chi riesce a sfruttare il funzionamento dell’algoritmo a proprio vantaggio anziché spingere perché si costruiscono buoni contenuti.
E il leak di Google che ha riguardato quelli che all’inizio non sembravano documenti autentici è forse destinato anche a cambiare il rapporto che la società avrà in futuro con gli utenti. Perché quei leak, quei documenti in cui si legge buona parte di ciò che viene valutato nel momento in cui si deve dare un punteggio ad una pagina, sono stati confermati come autentici.
Google ha comunque sottolineato che non è possibile fare discorsi fondandoli solo e soltanto su quello che c’è in quei documenti. Ma già il fatto di aver riconosciuto la loro autenticità è importante. Anche perché nel documento emerge che Google utilizza delle metriche che in realtà avrebbe sempre negato di usare.
Ogni volta che c’è un aggiornamento importante all’algoritmo chiunque si trovi a doverlo navigare vorrebbe avere modo di guardare sotto la superficie per poter capire meglio perché una pagina è scomparsa dalla SERP e un’altra invece è finita in cima ai risultati.
Tutti vorremmo avere un modo per sapere davvero come stanno le cose. Ma la società della grande G, come dicevamo in apertura, cammina con apparente disinvoltura lasciando tutti sempre un po’ nel dubbio. Un dubbio che dovrebbe essere, forse, un pungolo a fare del proprio meglio.
Un po’ come quando gli insegnanti non chiariscono bene come saranno valutati i compiti in classe e dicono solo di fare del nostro meglio. Se poi quel meglio basta o no lo decide l’entità superiore. Ma eravamo tutti più o meno convinti di aver capito quali fossero le aree su cui lavorare.
A quanto pare invece ci sarebbero delle metriche che invece sono valutate anche se c’era stato detto di no. Ovviamente, e questa è una precauzione che va presa sempre, quello che manca nei documenti è il valore effettivo che questi nuovi fattori di ranking possono avere. Ma già il fatto che esistano (e che quindi tutti quelli che pensavano esistessero ora possono smettere di pensare di essere visionari) è un piccolo terremoto.
Nel blog di Sparktoro, Rand Fishkin esordisce raccontando di aver ricevuto una email all’inizio del mese di maggio. Una mail da una fonte, che aveva chiesto di rimanere anonima, che dichiarava di aver avuto accesso alla documentazione dell’API di Google Search. Un documento che, questo spiega Fishkin, la stessa fonte avrebbe anche controllato con ex impiegati di Google.
E questi ex impiegati avrebbero anche aggiunto altre informazioni. Tra le molte contenute in questo documento quelle che hanno destato più scalpore sono per esempio il fatto che a quanto pare Google utilizzi, anche se di nuovo non sappiamo in quale quantità, dati presi dagli account che hanno fatto login su Chrome, sui cookie, sui pattern di comportamento per i click sui link.
Questi fattori verrebbero utilizzati per ridurre lo spam. Un altro elemento interessante è il fatto che per i siti web di nuova costruzione esiste una sorta di sandbox, ovvero un periodo di tempo in cui, anche se magari hanno contenuti che potrebbero emergere nella SERP, faticano a prendere l’abbrivio. Tutti dentro Google hanno sempre negato che ci fosse eppure dentro i documenti del leak di Google si parla di questa sandbox.
Come pure emerge il fatto che Navboost, un sistema che esiste dentro Google da tempo immemore, raccolga dati relativi ai click anche a un livello granulare perfino di Stato e di provincia e riconosca come il click arriva e lo categorizza in base a utenti mobile oppure desktop.
Come abbiamo già detto, però, sapere che Google in realtà valuta anche dei dettagli che aveva sempre negato aiuta solo in parte chi magari vorrebbe cercare di migliorare il proprio ranking con la SEO.
Scoperto che forse Google non è quel compagno di lavoro che si pensava, la domanda diventa: che cosa è possibile fare alla luce di ciò che è emerso? In realtà, il primo presupposto da cui occorre partire è che le informazioni, nonostante il documento API sia stato aggiornato di recente, potrebbero comunque essere informazioni vecchie.
Vale la pena ricordare che non c’è scritto come l’algoritmo valuti anche quegli elementi che abbiamo scoperto essere inseriti nel calderone della valutazione. Quello che è molto probabile accadrà, invece, è che sarà Google a cambiare qualcosa. La comunicazione diventerà probabilmente (ancora) meno chiara e meno aperta.
Dal punto di vista dei professionisti della SEO quello che si può fare è cercare di leggere con attenzione la documentazione e continuare a lavorare per fornire innanzitutto ciò che serve agli utenti. Per quello che riguarda la famosa sandbox, che non doveva esistere ma che a quanto pare esiste, può essere innanzitutto un modo per leggere il traffico lento che i nuovi siti a volte registrano. È un modo con cui Google cerca di capire se il sito produce contenuti o solo spam.
Come pure si può valutare in prospettiva il valore delle ultime 20 modifiche delle pagine indicizzate, che sono quelle che l’algoritmo prende in considerazione per mettere uno dopo l’altro i risultati nella SERP. Sapendo che vengono presi in considerazione solo gli ultimi 20 snapshot che Google ha fatto è più facile sapere se quello che c’era prima funzionava oppure no.
PS: Alla fine la gola profonda si è svelata al mondo: Erfan Azimi, esperto SEO fondatore di EA Eagle Digital.
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